L'IA sostituirà il posto di lavoro di tutti? È una vecchia storia

30/01/2024 20:03
L'IA sostituirà il posto di lavoro di tutti? È una vecchia storia
Robert Solow

Già nel 1938, il presidente del Mit, la prestigiosa università americana, sosteneva che il progresso tecnico non si traducesse in minori posti di lavoro. E lo stesso ribadì il nobel Robert Solow nel 1962. Con concetti ancora validi. A patto che… | Intelligenza Artificiale, l’Antitrust Usa indaga sugli accordi delle big tech. Nel mirino Amazon, Microsoft, Google e OpenAI

Era il 1938 e il dolore della Grande Depressione era ancora molto forte. La disoccupazione negli Stati Uniti si aggirava intorno al 20%. Tutti erano preoccupati per il posto di lavoro. Nel 1930, l'eminente economista britannico John Maynard Keynes aveva avvertito che si era «afflitti da una nuova malattia» chiamata disoccupazione tecnologica. I progressi nel risparmio di manodopera, scrisse, stavano «superando il ritmo con cui riusciamo a trovare nuovi usi per il lavoro». Sembravano esserci esempi ovunque. I nuovi macchinari stavano trasformando le fabbriche e le aziende agricole. La commutazione meccanica adottata dalla rete telefonica nazionale stava eliminando la necessità di operatori telefonici locali, uno dei lavori più comuni per le giovani donne americane all'inizio del XX secolo. Le impressionanti conquiste tecnologiche, che stavano rendendo la vita più facile a molti, stavano anche distruggendo posti di lavoro e portando scompiglio nell'economia?

Il vecchio spauracchio della disoccupazione tecnologica

Se lo è chiesto David Rotman, columnist di MIT Technology Review, il media della prestigiosa università americana, in una lunga ricostruzione storica del rapporto tra l’innovazione tecnologica e le sue ripercussioni sociali.

Rotman ricorda che Karl T. Compton, presidente del MIT dal 1930 al 1948 e uno dei principali scienziati dell'epoca, scrisse un articolo nel numero di dicembre del 1938 di MIT Technology Review a proposito dello «spauracchio della disoccupazione tecnologica». Compton si chiese: «Le macchine sono i geni che scaturiscono dalla lampada di Aladino della scienza per soddisfare ogni necessità e desiderio dell'uomo, o sono mostri di Frankenstein che distruggeranno l'uomo che le ha create?». Compton lasciò intendere che avrebbe assunto una visione più concreta: «Cercherò solo di riassumere la situazione per come la vedo io». Il suo saggio inquadrava in modo conciso il dibattito sui posti di lavoro e sul progresso tecnico in un modo che resta ancora attuale, soprattutto alla luce dei timori odierni sull'impatto dell'intelligenza artificiale.

Compton operò una netta distinzione tra le conseguenze del progresso tecnologico sull'«industria nel suo complesso» e gli effetti, spesso dolorosi, sui singoli individui. Per «l'industria nel suo complesso», secondo lui, «la disoccupazione tecnologica è un mito». Questo perché, sosteneva, la tecnologia «ha creato così tante nuove industrie» e ha ampliato il mercato di molti prodotti «abbassando il costo di produzione per rendere il prezzo alla portata di grandi masse di acquirenti». In breve, i progressi tecnologici hanno creato complessivamente più posti di lavoro. L'argomento, e la domanda se sia ancora vero, rimane pertinente nell'era dell'intelligenza artificiale.

Ma Compton cambiò bruscamente prospettiva, riconoscendo che per alcuni lavoratori e comunità «la disoccupazione tecnologica può essere un problema sociale molto serio, come in una città la cui fabbrica ha dovuto chiudere, o in un mestiere che è stato sostituito da una nuova arte». Compton, un fisico, fu il primo presidente di un comitato consultivo scientifico istituito da Franklin D. Roosevelt, e iniziò il suo saggio del 1938 con una citazione dal rapporto del 1935 del comitato al presidente: «Che la nostra salute nazionale, la nostra prosperità e il nostro piacere dipendano in larga misura dalla scienza per il loro mantenimento e il loro futuro miglioramento, nessuna persona informata lo negherebbe».

L'affermazione di Compton secondo cui il progresso tecnico aveva prodotto un guadagno netto in termini di occupazione non era priva di controversie. Secondo un articolo del New York Times scritto nel 1940 da Louis Stark, un importante commentatore del mondo del lavoro, Compton «si scontrò» con Roosevelt dopo che il presidente aveva detto al Congresso: «Non abbiamo ancora trovato un modo per impiegare il surplus di lavoro che l'efficienza dei nostri processi industriali ha creato».

Come spiegava Stark, il problema era se «il progresso tecnologico, aumentando l'efficienza dei nostri processi industriali, tolga posti di lavoro più velocemente di quanto ne crei». Stark aveva riportato dati recenti sui forti aumenti di produttività derivanti da nuovi macchinari e processi produttivi in vari settori, tra cui l'industria dei sigari, della gomma e del tessile. In teoria, come sosteneva Compton, ciò si traduceva in più beni di consumo a prezzi più bassi e, sempre in teoria, più domanda di questi prodotti più economici, con conseguente aumento dei posti di lavoro. Ma, come spiegava Stark, la preoccupazione era: quanto velocemente l'aumento della produttività avrebbe portato a quei prezzi più bassi e a quella maggiore domanda?

Per dirla con Stark, anche coloro che concordavano sul fatto che i posti di lavoro sarebbero tornati «nel lungo periodo» erano preoccupati del fatto che «i salariati dismessi devono mangiare e prendersi cura delle loro famiglie 'nel breve periodo'».

Con la Seconda Guerra Mondiale le opportunità di lavoro non mancarono. Ma le preoccupazioni per il lavoro continuarono. In effetti, anche se nel corso dei decenni è cresciuta e diminuita a seconda della salute dell'economia, l'ansia per la disoccupazione tecnologica non si è mai spenta.

Solow: «Problemi che non mi preoccupano»

Rotman ricorda un altro periodo analogo all’attuale: i primi anni Sessanta. Anche allora la disoccupazione era alta. Alcuni importanti pensatori dell'epoca sostenevano che l'automazione e la rapida crescita della produttività avrebbero superato la domanda di lavoro. Nel 1962, la MIT Technology Review cercò di sfatare il panico con un saggio di Robert Solow, un economista del MIT premio Nobel nel 1987 per aver spiegato il ruolo della tecnologia nella crescita economica, morto l'anno scorso all'età di 99 anni.

Nel suo articolo, intitolato «Problemi che non mi preoccupano», Solow prendeva in giro l'idea che l'automazione stesse portando alla disoccupazione di massa. Tra il 1947 e il 1960 la crescita della produttività si era attestata intorno al 3% annuo. «Non è da snobbare, ma non si tratta nemmeno di una rivoluzione», scriveva. Nessun grande boom della produttività significava che non c'erano prove di una seconda rivoluzione industriale che «minacciava una disoccupazione catastrofica». Ma, come Compton, anche Solow riconosceva un altro tipo di problema legato ai rapidi cambiamenti tecnologici: «Alcuni tipi specifici di lavoro... possono diventare obsoleti e avere un valore improvvisamente più basso sul mercato... e il costo umano può essere molto grande».

L’AI riaccende la questione

Oggi il panico è dovuto all'intelligenza artificiale e ad altre tecnologie digitali avanzate. Come gli anni '30 e i primi anni '60, i primi anni del 2010 sono stati un periodo di alta disoccupazione, in questo caso perché l'economia stava lottando per riprendersi dalla crisi finanziaria del 2007-2009. È stato anche un periodo di nuove tecnologie impressionanti. Gli smartphone si sono diffusi improvvisamente ovunque. I social media stavano decollando. Si intravedevano auto senza conducente e progressi nell'intelligenza artificiale. Questi progressi potrebbero essere collegati alla scarsa domanda di lavoro? Potrebbero far presagire un futuro senza lavoro?

In un articolo di Rotman, intitolato «Come la tecnologia sta distruggendo i posti di lavoro», l'economista Erik Brynjolfsson e il suo collega Andrew McAfee hanno sostenuto che il cambiamento tecnologico sta eliminando posti di lavoro più velocemente di quanto ne stia creando. Non si trattava solo della chiusura di una fabbrica. Piuttosto, le tecnologie digitali avanzate stavano portando alla perdita di posti di lavoro in un'ampia fascia dell'economia, sollevando ancora una volta lo spettro della disoccupazione tecnologica.

Rotman sottolinea come sia difficile individuare una singola causa per qualcosa di così complesso come un calo dell'occupazione totale: potrebbe essere solo il risultato di una crescita economica lenta. Ma sta diventando sempre più evidente, sia nei dati che nelle osservazioni quotidiane, che le nuove tecnologie stanno cambiando i tipi di lavoro richiesti e, sebbene non fosse una novità, la portata della transizione sia preoccupante, così come la velocità con cui stava avvenendo. I robot industriali avevano eliminato molti posti di lavoro ben retribuiti nel settore manifatturiero in luoghi come l’area cosiddetta Rust belt americana, e ora l'IA e altre tecnologie digitali stavano prendendo di mira i lavori impiegatizi e d'ufficio e persino, si temeva, la guida dei camion.

Nel suo discorso di commiato prima di lasciare l'incarico nel gennaio 2017, il presidente Barack Obama parlò del «ritmo incessante dell'automazione, che rende obsoleti molti buoni lavori della classe media».

In un'intervista rilasciata alla fine dello scorso anno al primo ministro del Regno Unito, Rishi Sunak, Elon Musk ha dichiarato che arriverà un momento in cui «non ci sarà più bisogno di un lavoro», grazie a un «genio magico dell'intelligenza artificiale che potrà fare tutto ciò che vuoi». Musk ha aggiunto che, di conseguenza, «non avremo un reddito di base universale, ma un reddito elevato universale».

Rotman indica che non sia possibile dimostrare che Musk si sbaglia, dal momento che non ha fornito alcuna tempistica per la sua previsione utopica; in ogni caso, come si fa a contrastare il potere di un genio magico.

I progressi dell'IA generativa, come ChatGPT e altri modelli linguistici di grandi dimensioni, trasformeranno probabilmente l'economia e i mercati del lavoro. Ma non ci sono prove convincenti che ci stiamo avviando verso un futuro senza lavoro. Per parafrasare Solow, dovremmo preoccuparcene solo quando sorgesse un problema di cui preoccuparsi.

Persino una stima rialzista sugli effetti dell'IA generativa effettuata da Goldman Sachs stima il suo impatto sulla crescita della produttività a circa l'1,5% all'anno nei prossimi 10 anni. Come direbbe Solow, non è da snobbare, ma non è detto che non ci sia più bisogno di lavoratori. Il rapporto di Goldman Sachs ha calcolato che circa due terzi dei posti di lavoro negli Stati Uniti sono «esposti a un certo grado di automazione da parte dell'IA». Tuttavia, questa conclusione viene spesso interpretata in modo errato: non significa che tutti questi posti di lavoro saranno sostituiti. Piuttosto, come osserva il rapporto Goldman Sachs, la maggior parte di queste posizioni sono «solo parzialmente esposte all'automazione». Per molti di questi lavoratori, l'IA diventerà parte della giornata lavorativa e non porterà necessariamente a licenziamenti.

I posti che crea l’IA

Un elemento cruciale è il numero di nuovi posti di lavoro che l'IA creerà, anche se quelli esistenti scompariranno. Stimare la creazione di tali posti di lavoro è notoriamente difficile. Rotman indica che David Autor del MIT e i suoi collaboratori hanno recentemente calcolato che il 60% dell'occupazione nel 2018 riguardava tipi di lavoro che non esistevano prima del 1940. Uno dei motivi per cui l'innovazione ha creato così tanti nuovi posti di lavoro è che ha aumentato la produttività dei lavoratori, incrementando le loro capacità e ampliando il loro potenziale per svolgere nuovi compiti. La cattiva notizia è che questa creazione di posti di lavoro è contrastata dall'impatto distruttivo dell'automazione quando viene utilizzata per sostituire semplicemente i lavoratori. Come concludono Autor e i suoi coautori, una delle domande chiave è se «l'automazione stia accelerando rispetto all'aumento, come temono molti ricercatori e politici».

In futuro, sostiene Rotman, abbiamo una scelta: possiamo usare la tecnologia semplicemente per sostituire i lavoratori, oppure possiamo usarla per espandere le loro competenze e capacità, portando alla crescita economica e a nuovi posti di lavoro.

Uno dei punti di forza duraturi del saggio di Compton del 1938 era la sua argomentazione secondo cui le aziende dovevano assumersi la responsabilità di limitare il dolore di qualsiasi transizione tecnologica. I suoi suggerimenti includevano «la cooperazione tra le industrie di una comunità per sincronizzare i licenziamenti in un'azienda con la creazione di nuovi posti di lavoro in un'altra». Questo potrebbe sembrare obsoleto nell'economia globale di oggi. Ma il sentimento di fondo rimane attuale: «il motivo predominante non deve essere la rapidità dei profitti, ma il miglior servizio finale al pubblico».

In un momento in cui le aziende produttrici di IA stanno acquisendo un potere e una ricchezza senza precedenti, devono anche assumersi una maggiore responsabilità per l'impatto che la tecnologia ha sui lavoratori. Evocare un genio magico per spiegare un futuro inevitabilmente senza lavoro non basta. (riproduzione riservata)


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